giovedì 1 dicembre 2016

La valenziale... sulla via di Damasco (intervista a Nicola Grandi)

La grammatica valenziale ha alle spalle alcuni decenni di sperimentazioni didattiche in Italia.
Per molti studenti che hanno avuto la fortuna di incontrarla sui banchi di scuola, è stata una rivelazione. Per qualcuno, ha addirittura segnato l'inizio di una carriera da linguista.
Questa è la testimonianza di Nicola Grandi, oggi professore ordinario di Linguistica generale all'Università di Bologna.


D - Quando e come è avvenuto il tuo incontro con la valenziale?

All’inizio del liceo, durante la prima lezione di latino e greco con uno dei professori che, più di tutti, hanno poi influenzato la mia formazione: il professor Ettore Campi, del Liceo Ariosto di Ferrara. In realtà mi sono accorto solo dopo che stavamo usando la grammatica valenziale. All’epoca quel metodo ci fu presentato come ‘metodo Proverbio’. Mi ricordo ancora la prima frase che il professore pronunciò in classe: il metodo Proverbio si basa sulla verbodipendenza. E poi ci mise di fronte un testo in latino e partimmo da quello per cercare di ricavare tutte le regolarità della lingua e di trasformarle poi in regole esplicite. Non ci capii nulla per un bel po’ e ricordo lo smarrimento di mio nonno, laureato in lettere e insegnante di lettere, che insisteva per aiutarmi a fare i compiti e non riusciva a venirne a capo…
Non credo di aver mai sentito nominare esplicitamente la grammatica valenziale, durante il liceo: ce la presentarono… in incognito!

 
D - C'era coerenza metodologica nello studio delle lingue classiche e nella riflessione sull'italiano?

Solo nel biennio e solo in parte. In italiano usavamo il volume di Francesco Sabatini, La comunicazione e gli usi della lingua. Poi nel triennio c’era meno coordinamento, anche perché in italiano abbandonammo un po’ la riflessione metalinguistica.

 
D - I libri di testo in adozione avevano un'impostazione valenziale o tradizionale?

Tendenzialmente valenziale. Del libro di italiano ho già detto. In latino adottavamo invece ‘Fare latino’, di Proverbio e altri autori. E, in questo caso, l’impostazione era più marcatamente valenziale. Il libro di greco non aveva nulla di valenziale.

 
D - Quali sono i tuoi ricordi di studente (impatto, motivazione ecc.)?

L’impatto, come dicevo, fu una sensazione di sostanziale smarrimento. Alcuni miei compagni, che si erano messi avanti nell’estate studiando latino per conto loro (cioè andando a ripetizione e quindi usando un metodo tradizionale), si sentivano ancora più persi. Era un modo di vedere le lingue totalmente diverso da quello che avevamo sperimentato durante le scuole medie. Anche nella terminologia. Il complemento di termine diventava C3, quello di specificazione C2, il soggetto C1, ecc. Ci veniva richiesto di rappresentare le frasi attraverso grafi ad albero, con linee continue e tratteggiate (che chiamavamo ‘modelli’). Insomma, niente in comune con la solita analisi logica e del periodo. Ricordo ancora un episodio: un mio compagno fu sorpreso, durante un compito in classe, ad analizzare la frase e a tradurre con il metodo tradizionale’; il professore gli fece un cazziatone che fece storia!
Poi, una volta assimilato il metodo, tradurre diventava davvero una sfida: si entrava nel testo e nella testa di chi lo aveva scritto, diventava quasi una operazione di logica, non un semplice compito di lingua.
Anzi, venivamo invitati a fare due traduzioni: una letterale e una libera, cercando nella nostra lingua i costrutti che meglio rendevano quello che c’era nella versione di greco o latino.
 

D - Ritieni che l'analisi linguistica fatta col modello valenziale abbia avuto un ruolo nelle tue scelte successive (diventare linguista e, e più in particolare tipologo)?

Io credo di essere diventato linguista al liceo. Come ho detto sopra, tradurre diventava una sfida che andava ben oltre la necessità di cercare, in italiano, equivalenti quasi automatici di quello che era scritto in latino o in greco. Tradurre era solo il mezzo per capire i meccanismi profondi della lingua, a livello grammaticale e logico. Capii che una frase va analizzata su più livelli: quello sintattico certamente, ma anche quello dei ruoli tematici. Poi nella tipologia ho ritrovato molto di quello che avevo imparato: la necessità di usare categorie descrittive che siano neutrali rispetto alle lingue studiate, l’universalità delle relazioni logiche e, invece, la diversità della loro realizzazione formale. Insomma, fare Lettere classiche dopo il liceo fu una scelta quasi scontata; e laurearmi in Linguistica la conseguenza inevitabile della mia esperienza al Liceo.
 

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