sabato 27 maggio 2017

Insegnare secondo Costituzione

Si è tenuto questa mattina a Roma, presso l'Università "La Sapienza", il Seminario annuale di Intervento e Studio del GISCEL dedicato a Tullio De Mauro (Dopo Tullio, con Tullio).
Un'occasione di bilanci, proposte, confronti tra studiosi e insegnanti di diverse generazioni che hanno a cuore la scuola, la lingua e la democrazia. In altre parole, l'educazione linguistica democratica.
Una conquista preziosa e fragile per la scuola italiana, che sembra oggi orientata allo sviluppo del "capitale umano" più che allo sviluppo del diritto di parola ("tutti gli usi della parola a tutti" - secondo la nota formula di Gianni Rodari), puntando in modo sempre più deciso alla selezione piuttosto che all'inclusione, alla costruzione di muri più che di ponti.

Nel mio contributo alla Tavola Rotonda ho cercato di mettere a fuoco un'idea per me centrale all'interno delle X Tesi per l'Educazione Linguistica Democratica (ELD), e più in generale della lezione di Tullio De Mauro (che quelle tesi ha ispirato), tenendo sullo sfondo questa citazione:

“Non cresciamo in solitudine e sviluppiamo le nostre capacità, le nostre coscienze e conoscenze in un rapporto continuo con gli altri.” (Tullio De Mauro, In principio c’era la parola?, 2009)
La lingua come strumento di relazione (col mondo esterno e con gli altri). Ma anche come mezzo caratterizzato da una trama di relazioni interne: relazioni (in presenza e in assenza) tra le parole, tra componente verbale e non verbale, tra lingua di scolarizzazione e "lingue di casa" (ieri i dialetti, oggi le lingue di immigrazione), tra usi espressivi e usi comunicativi della lingua, tra scritto e parlato, tra produzione e ricezione, tra formale e informale.
Una visione non monolitica ma poliedrica di una lingua viva e in movimento come l'italiano.

Ho articolato il mio intervento in 9 punti (o proposte):

1- La necessità di riannodare i fili delle relazioni tra generazioni: quella che ha promosso l’ELD (lavorando sul terreno della conquista dei diritti) e che sta via via uscendo dalla scuola, e la generazione nata dopo gli anni Settanta, che nella scuola è entrata da poco e che dovrebbe difendere e far crescere quei diritti (tutt’altro che acquisiti), trovandosi a operare in un ambiente impoverito e disorientato, con complessità nuove e diverse, alle prese con una diffusa resistenza nei confronti di molti dei principi enunciati dalle X Tesi. Resistenza collegabile da un lato a una ancora estesa ignoranza del documento, dall’altro ai tentativi di delegittimazione dei presupposti e dei maestri dell’ELD (De Mauro e don Milani tra tutti) operati da un discorso di tipo conservatore sulla scuola (di cui altrove ho cercato di smontare i presupposti autoritari).

2. L'importanza di far dialogare scuola e ricerca: non solo attraverso la collaborazione tra docenti universitari e di scuola nell’ambito della formazione (tirocini, corsi di aggiornamento) e della sperimentazione sul campo (ricerca-azione), ma anche attraverso la promozione di una figura di insegnante-ricercatore che veda riconosciuta e promossa la sua capacità di “apprendere mentre insegna” e di documentare esperienze didattiche significative facendole entrare nel circuito comunicativo. Anche per evitare (come troppe volte accade) che queste esperienze rimangano episodi virtuosi destinati a "consumarsi” all’interno della classe (e questo a tutti i livelli di scuola, tanto più in quelli di cui meno si sa, come le secondarie superiori).

3 e 4. L'importanza della formazione in servizio dei docenti, che dovrebbe coinvolgere formatori qualificati e incoraggiare non tanto e non solo la familiarizzazione con le nuove tecnologie, ma soprattutto pratiche innovative di progettazione, in cui docenti di diverse materie entrino in relazione e imparino a collaborare tra loro in un'ottica di trasversalità; in cui docenti di diversi ordini di scuola inizino a ragionare in un’ottica di gradualità (per costruire insieme curricoli verticali che rallentino la corsa all’anticipazione indebita e alla frammentazione della riflessione sulla lingua).
La necessità, inoltre, di ripensare anche la formazione iniziale degli insegnanti, mettendo a punto un "piano di studi" ideale per il futuro insegnante di italiano di scuola primaria e secondaria in cui lo studio scientifico della lingua (storia, grammatica, varietà ecc.) abbia uno spazio adeguato.
"Formate bene chi insegna e avrete una scuola buona" - scriveva De Mauro plaudendo alle iniziative dei Lincei per la scuola, che affiancano (in modo concreto e non sporadico) agli insegnanti la miglior cultura umanistica e scientifica per sostenerli "nel difficile compito di far bene scuola". Perché "le riforme, anche quelle ben meditate, i programmi, l’edilizia, la numerosità delle classi, il tempo scuola" sono importananti, ma assai meno.




5. La doverosa cura della relazione tra docenti e studenti. Per insegnare, il sapere è necessario ma non sufficiente: bisogna conoscere e rispettare le persone che abbiamo di fronte - ragazze e ragazzi diversi da "come eravamo noi", che hanno bisogno di far dialogare virtuale e corporeo, intelligenza sequenziale e simultanea, velocità di accesso alle informazioni e lentezza dei processi di apprendimento, facilità di informazione e difficoltà di vaglio critico. Ragazzi che hanno bisogno di essere guidati per “trasformare le informazioni in conoscenze” (Michel Serres), per raggiungere una “saggezza digitale” (Marc Prensky). Ragazzi che, a prescindere dalla strumentazione informatica, dovremmo cercare di coinvolgere in classe con metodologie didattiche non puramente trasmissive, stimolandoli a confrontare lingue diverse e usi diversi della stessa lingua per educarli alla “consapevole mobilità tra norme diverse” (De Mauro) in tipi di testi diversi. Invitandoli a confrontare opinioni diverse maturate attraverso la lettura, concepita come un impegnativo ma piacevole corpo a corpo coi testi della tradizione (che potrebbero e dovrebbero essere letti direttamente, non solo attraverso la mediazione di autorevoli interpreti, e discussi). Creando situazioni “corali” (come l’ascolto partecipe e la narrazione condivisa) e non solo frontali e asimmetriche (come la spiegazione o l'interrogazione/compito in classe). Senza necessariamente “capovolgere” la classe, ma puntando in modo più deciso, a una “pratica di insegnamento e apprendimento dialogica e cooperativa” (De Mauro). Dando spazio e profondità all'apprendimento, senza il quale non può esserci valutazione.

6. L'impegno a non cedere all’opposizione frontale tra inclusione e selezione: favoriamo le relazioni tra studenti di diversa provenienza e livello e lavoriamo con serietà sulle competenze di base per tutti, anziché sulla selezione anticipata. Perché, come negli sport, se mescoliamo i più forti e i meno forti, i primi riusciranno comunque bene, i secondi riusciranno meglio. Quanto più ampia e solida è la base, inoltre, tanto più forte e consistente sarà l’eccellenza (Claude Baudelot).
Ancora oggi, dunque “non uno, non una di meno”. Puntiamo all'inclusione, come ci chiede la Costituzione, ma senza viverla come una scelta al ribasso. Abbiamo a cuore l’eccellenza, ma nella consapevolezza che l’elitismo conserva e aumenta le disuguaglianze e non produce una élite di qualità.

7. Il richiamo alla responsabilità dell’insegnante di fronte ai nuovi mezzi di apprendimento e condivisione dei contenuti, basati su multimedialità e multisensorialità, che hanno cambiato profondamente le modalità di alfabetizzazione, socializzazione e comunicazione delle nuove generazioni. Perché le competenze di cittadinanza e le relazioni (anche tra gli insegnanti) passano oggi anche attraverso questi mezzi, di cui dobbiamo diventare (e far diventare i nostri alunni, sempre più digitali e connessi) utenti consapevoli e critici.

8. Il rafforzamento dei momenti di confronto e sinergia con altre associazioni che operano nello stesso ambito (ASLI scuola, Lincei per la scuola, CIDI, MCE) o in ambiti contigui (ADI Sezione Didattica). Con gli italianisti, in particolare, sarebbe necessario lavorare perché l’educazione letteraria torni a dialogare con l’EL nelle secondarie superiori (e non solo nel biennio). Dobbiamo riaffermare le ragioni di una grammatica dei testi, con i testi e per i testi (letterari e non solo). Una grammatica “alleggerita” nel suo apparato descrittivo, ma approfondita nelle sue dimensioni storiche, che metta in grado di accedere ai testi della tradizione ragionando sulle forme e sui significati prima di correre alla nota (o alla traduzione) a piè di pagina.

9. Il confronto ineludibile con gli editori scolastici. L'offerta italiana di grammatiche e antologie scolastiche è caratterizzata da un numero crescente di proposte che tendono a differenziarsi poco (non solo tra un editore e l'altro, ma anche tra offerte per la secondaria inferiore e il biennio) e continuano a seguire la logica dell'accumulo e della ripetizione del canone (dal piccolo al grande nelle grammatiche, dal grande al piccolo nelle antologie, senza alcuna selezione e gerarchizzazione dei contenuti), per rispettare le aspettative del mercato. 
Serve più coraggio, da parte di tutti: da parte degli insegnanti che adottano, ma anche da parte di chi concepisce i libri di testo. Perché i libri hanno un peso e un prezzo, ma anche dei contenuti che andrebbero ripensati "dalla parte dello studente", visto come una persona in crescita e non come vaso da riempire di nozioni.
 

P.S.: Questa mattina, in contemporanea, presso il Liceo Tasso di Roma, si è tenuta una conferenza stampa del Gruppo dei 600 finalizzata a rilanciare l'appello in difesa dell'italiano e della scuola del merito. Disertata dalla stampa (solo Radio Radicale ha dedicato uno spazio all'iniziativa con interviste ai promotori). Per disattenzione? Forse. O magari perché ci si è accorti della strumentalità e della superficialità di quell'appello. E dell'inelegante puntualità con cui il Gruppo di Firenze parte, la lancia in resta, a offuscare (se non a infangare) la memoria di Tullio De Mauro e di don Milani (che oggi, 27 maggio 2017, avrebbe compiuto 94 anni). Perché - su questo siamo d'accordo - la forma è sostanza.  



sabato 20 maggio 2017

Tutt* al Salone del Libro! (pad. 2, L58)




Il Salone del libro di Torino si sta rivelando un successo nonostante l'assenza dei grandi gruppi editoriali. O forse grazie anche all'assenza degli stand più invadenti e distraenti. La diversità e la ricchezza delle proposte dei piccoli e medi editori, la loro capacità di resistenza in un mercato dominato dai più grossi e feroci emergono con forza.
Nel poco tempo che ho a disposizione, e nello spazio di uno stesso padiglione, ho la fortuna di trovare i miei editori di riferimento: Carocci, Loescher e le Edizioni Dedalo con Claudia Coga.
Quest'anno aggiungo Caissa, una piccola casa editrice specializzata in saggistica e traduzioni di classici.
Sul loro banchetto, pieno di titoli sugli scacchi (Caissa è la dea del gioco degli scacchi), compare l'ultimo libro al quale ho collaborato. Si intitola Tutto ciò che hai sempre voluto sapere sul linguaggio e sulle lingue (curato dai colleghi bolognesi Francesca Masini e Nicola Grandi) e raccoglie 44 contributi brevi, chiari e autorevoli di linguisti italiani, concepiti come risposte alle domande del(la) non specialista sulla facoltà umana del linguaggio (ma si parla anche di linguaggi animali e informatici), sulle parentele affinità diversità incroci tra le lingue del mondo (lingue naturali e lingue inventate, lingue verbali e lingue dei segni) e sulle caratteristiche della lingua che parliamo (l'italiano, ma anche le lingue minoritarie), o che smettiamo di parlare (a causa di patologie del linguaggio, oppure perché muore una lingua).
Un libro rivolto al grande pubblico, nato sulla falsariga di The 5 Minute Linguist. Bite-size Essays in Language and Languages, volume pubblicato dalla casa editrice statunitense Equinox nel 2006 (seconda edizione 2012).
Un fratello maggiore del mio libro per bambini, Fatti di lingua (Dedalo 2009), nato per raccontare ai miei figli il lavoro che faccio (perché il/la linguista - come ricordano Grandi e Masini nel pezzo di apertura - non è una persona che parla molte lingue, e tantomeno una persona che corregge gli errori altrui!).

Scorrendo l'indice del volume, anche i meno curiosi avranno voglia di leggere qualche assaggio, attratti dai nomi più noti al grande pubblico (come Telmo Pievani o Francesco Sabatini), dai titoli brillanti degli articoli, dalla varietà di temi trattati.
Io ho risposto in 5 pagine ad altrettanti dubbi sulla lingua che parliamo: è davvero sbagliato a me mi? Il congiuntivo è in declino? Qual è il valore di piuttosto che? Perché sindaca ci suona strano? Usiamo troppi anglismi?

Questo libro avrebbe dovuto accogliere una Prefazione di Tullio De Mauro, che con la sua consueta generosità e il suo entusiasmo aveva sostenuto il progetto. Quella Prefazione non ha avuto la luce, ma  la sua voce echeggia nelle parole dei curatori, che così hanno voluto ricordare il suo insegnamento:

Tra i diritti fondamentali di ogni persona ci sono anche i diritti linguistici. Tullio De Mauro ha spesso segnalato però uno sbilanciamento di questi diritti a favore del mittente: si parla spesso della libertà di parola, della libertà di scegliere la lingua in cui esprimersi, ecc. I diritti dei destinatari sono invece assai meno tutelati e la comprensione è sovente considerata, in modo erroneo, una conseguenza naturale, passiva, inevitabile della produzione di un qualunque enunciato. Non è così. Il fatto che una frase sia grammaticalmente impeccabile non garantisce di per sé che essa verrà effettivamente compresa. Le parole non sono tutte uguali e non tutti gli uomini hanno accesso alle stesse parole. Chi ascolta o legge ha diritto di capire. E per questo chi parla o scrive ha il dovere di farsi capire. Violare il diritto alla comprensione significa tradire l'uguaglianza e la parità.
A chiunque si misuri con la sfida della divulgazione dei saperi, le parole di De Mauro ricordano l'importanza di sapersi mettere in ascolto, di porsi dalla parte del ricevente: "Le parole sono fatte, prima che per essere dette, per essere capite".
Alla sua memoria questo libro è dedicato.
 

mercoledì 10 maggio 2017

L'ortografia non è la grammatica

Questa volta prendo spunto da un articolo di Gianluca Didino apparso sulla rivista online "Prismo", intitolato Infinite hipster. Sarà davvero la grammatica l’ultimo rifugio dell’ironia hipster?


La prima parte del titolo dell'articolo allude al romanzo di David Foster Wallace Infinite Jest (1996) e alla gustosa invenzione dei Militant Grammarians of Massachusetts, un'organizzazione che boicotta i negozi che espongono cartelli con scritte sgrammaticate. A questi "Grammar Nazi" - come vengono correntemente chiamati nei social gli incendiari puristi della lingua - viene accostato l'anonimo grammar vigilante di Bristol, un attivista (recentemente intervistato dalla BBC) che da 13 anni gira di notte per la città inglese, munito di bomboletta "apostrofatrice", per correggere gli errori grammaticali, o meglio ortografici (segnatamente gli apostrofi) nelle insegne dei negozi. Un "Banksy della punteggiatura", come lo ha ribattezzato la stampa.
Didino collega la smania della purezza grammaticale all'ossessione degli hipster (la tribù urbana postmoderna regina del consumo presuntamente critico) per l’autenticità (ricerca del naturale, bio o organico, vegano, senza olio di palma, senza parabeni, senza vaccini ecc...).

A me questo personaggio ha riportato alla mente il protagonista di un romanzo di George Steiner pubblicato in traduzione da Garzanti nel 1999, Il correttore: un comunista che, dopo il crollo delle ideologie, vede nella caccia al più infimo refuso, nell'esattezza grafica del moribondo testo a stampa - ragione ultima del suo lavoro di correttore di bozze - l'unica forma residua di Utopia praticabile per "togliere gli errata [titolo di un altro libro di George Steiner] dalla storia".
In fondo, anche il writer inglese che apostrofa i cartelli ha in mente lo stesso obiettivo quando definisce la sua "una causa per la quale vale la pena lottare". Come ironicamente chiosa Didino: "se non puoi cambiare il mondo, almeno metti i puntini sulle i."

Veniamo al dunque: molto spesso, quando si lamentano i sempre più diffusi errori di grammatica, ci si riferisce proprio all'ortografia, che a rigore, tuttavia, non è parte della grammatica in senso stretto, anche se è compresa nei libri scolastici di grammatica (e quindi ricompresa nel sapere grammaticale).
Proviamo a fare un po' di chiarezza. La grammatica è l'insieme delle regole che riguardano la formazione e la combinazione delle parole. L'ortografia è un insieme di convenzioni che riguardano la trascrizione della catena parlata, ovvero la "traduzione" dei suoni delle parole in lettere (o grafemi), e la trasposizione di altri tratti della voce (pause, intonazione ecc.) sottoforma di segni "paragrafematici" (segni di interpunzione, apostrofi, accenti ecc.).
L'ortografia, a differenza della grammatica, non nasce con la lingua, ma con la scrittura: è un fattore storico-culturale che, pur avendo una relativa stabilità, subisce modifiche nel corso della storia ed è correlata a variabili culturali. La maggior parte dei segni moderni di punteggiatura è apparsa con l'invenzione della stampa, ma oggi, con Internet, si sono diffusi segni nuovi, come @ indicale e # citazionale; altri segni, inoltre, hanno subito modifiche (es. il punto e virgola, inventato da Pietro Bembo, è sempre meno usato; l'asterisco *, che in linguistica è usato per indicare espressioni agrammaticali, nello scritto serve per offuscare parolacce (e che c****) ma si sta diffondendo anche come desinenza indifferenziata rispetto al genere, specie nelle intestazioni di email).

L'ortografia, pur essendo legata alla pronuncia, evolve meno rapidamente di questa: ragion per cui, nel tempo, possono crearsi discrepanze tra il modo in cui una parola si pronuncia e il modo in cui si scrive. Noi italofoni, in realtà, siamo fortunati rispetto ad altri europei: l'italiano, infatti, ha fama di essere "una lingua che si legge come si scrive". Ogni tanto, certo, capita di avere qualche dubbio (es. rùbrica o rubrìca, èdile o edìle), ma basta consultare un qualsiasi dizionario per scioglierlo (esiste anzi un dizionario specializzato: il DOP, Dizionario di Ortografia e Pronuncia, edito dalle edizioni RAI e liberamente consultabile e ascoltabile online).

In realtà, la nostra lingua tende varie trappole, che si annidano nei suoni che costituiscono innovazioni rispetto al latino, e che siamo siamo stati obbligati a trascrivere con più lettere: in particolare nei suoni palatali c(i) e g(i) dolce, gl(i)gn(i)sc(i).
Altre difficoltà possono nascondersi in quelle parole, troppo simili tra di loro, che abbiamo dovuto differenziare con accorgimenti grafici come l'inserimento di una lettera muta (h nella coppia ho/o) o di accenti e apostrofi (da/dà, fa/fa').
La maggior parte di queste regole sono state fissate nel tempo e trovano ragione nella storia della lingua (a fine Ottocento era corretto scrivere provincie, in accordo con l'etimo latino - come tuttora appare nell'insegna della CARIPLO). Per quale motivo si scriva cuore con la c ma quadro con la q,
qual è senza accento ma com'è con l'accento, può dircelo solo l'etimologia. Ma se non vogliamo commettere errori, meglio stamparci in testa queste forme.

Del resto, noi italiani siamo molto conservatori in fatto di lingua: se altri paesi europei hanno approvato anche di recente riforme dell'ortografia (è il caso di Francia e Germania), in Italia i tentativi di riforma a scopo di semplificazione o unificazione delle grafie non hanno mai avuto seguito (si pensi ai ripetuti tentativi di sostituire il digramma ch col segno k). Fa eccezione qualche innovazione isolata, come il sé stesso sempre accentato, promosso da grammaticografi e in via di espansione.
E comunque, la situazione altrove è ben più drammatica che da noi... ma non si fa di tutt'erba un fascio.




Posto che l'errore di ortografia non determina quasi mai in italiano problemi comunicativi (ci si capisce comunque), va detto che la sanzione sociale è molto forte: l'effetto dell'errore ortografico in un testo scritto è, come dicono gli esperti di comunicazione, lo stesso di uno "spinacio tra i denti" che catalizza l'attenzione sulla forma a scapito dei contenuti. (Forse per questo in Svizzera hanno introdotto una certificazione di ortografia da allegare al curriculum vitae).

Molti errori di ortografia sono legati a punti critici del sistema: incoerenze tra pronuncia e grafia, uso di convenzioni per distinguere parole omografe, gestione di particelle pronominali atone in sequenza (es. ce l'ho, ce n'è ecc.). Per un ripasso rimando a questa Unità dell'Introduzione alla linguistica generale e italiana scritta per l'INDIRE da me e da Franca Orletti.
Cosa può fare concretamente la scuola affinché le nuove generazioni riescano a "cansare gli errori più ovvj d'ortografia" (come scriveva nel 1871 Francesco D'Ovidio, al quale dobbiamo la formula "educazione linguistica"), posto che per nessuna delle tipologie di errori elencate giova "fare più grammatica"?
Provo a rispondere con una citazione di Tullio De Mauro e una di Collodi:
La prima: "Verba tene, scripta sequentur. Curate con ogni mezzo e senza piccinerie e pigrizie mentali l'arricchimento del vocabolario e della sintassi, stimolate le letture, abituate a verbalizzare oralmente e per iscritto: la correttezza ortografica verrà poi da sé"
La seconda: "ricordati [Giannettino] che chi parla male, per il solito scrive anche male".

Insomma: oltre a potenziare le conoscenze culturali, bisognerebbe curare la pronuncia (dell'insegnante e del discente), allenare l'orecchio (alla corretta percezione delle distinzioni fonologiche), allenare l'occhio (a fotografare le grafie corrette nei casi più problematici e ri-conoscerle a ogni lettura), allenare la mano (favorire la cura anche manuale della scrittura), instillare il riflesso della rilettura (finalizzata all'autocorrezione), utilizzare il dizionario nella pratica didattica quotidiana.
Tutte attività che richiedono tempo e ci ricordano che non bisogna anticipare troppo la riflessione grammaticale nella primaria, specie nei primi anni, in cui ci si dovrebbe dedicare prevalentemente a "imparare a leggere e scrivere": il bravo insegnante non si affretterà a parlare di verbi e congiunzioni per distinguere è da e (o di preposizioni nel caso di a/ha), ma troverà soluzioni a misura di orecchie bambine per fissare la differenza (es. tra una e che lega e una è che spiega). E, soprattutto, cercherà di appassionare alla lettura, l'unico antidoto durevole alla sciatteria (anche se, bisogna ammetterlo, molti giornali e libri abbondano di refusi).
Del resto, la lettura di tipi di testi diversi potrà educare anche a un uso consapevole della punteggiatura (uno dei settori meno normati dell'uso scritto della lingua, e più strettamente collegato alle tipologie testuali, oltre che alla dimensione stilistica). I segni di punteggiatura, infatti, non servono tanto a marcare pause del respiro, quanto a fornire indicazioni per la lettura e la comprensione: più che con l'ortografia, vanno correlati con la sintassi (ecco una regola sicura: mai separare con una virgola il verbo dai suoi argomenti!), con la testualità (i due punti, per esempio, possono funzionare come connettivi con valore esplicativo) e con la struttura informativa della frase e del periodo (i segni di punteggiatura possono collaborare a creare effetti di primo piano e sfondo).

Serve il dettato ortografico nella scuola primaria, suggerito come terapia dalla lettera dei 600?  Può servire, come esercizio di attenzione critica alla forma fonica e grafica delle parola, a patto che, come insegnanti, siamo sicuri di saper spiegare la difficoltà che si annida negli errori più frequenti. E abbiamo voglia di provare strade nuove per rompere la monotonia: come il "dettato di non parole" suggerito da Ivo Monighetti (nel libro La lettera e il senso, La Nuova Italia, 1999).

Molto di più del dettato (che spesso punta in modo fin troppo esplicito alle difficoltà ortografiche e quindi agli errori), giovano attività ludiche che hanno una visione più ampia del problema (la dimestichezza con la forma grafica corretta delle parole e gli effetti sorprendenti di alcuni errori): come le filastrocche degli errori (celeberrime quelle di Gianni Rodari) o le filastrocche di "parole difficili" (scritte da Roberto Piumini, Stefano Bordiglioni e altri poeti per ragazzi), ma anche gli scioglilingua della nostra tradizione ("trentatré trentini...") e tutti quei giochi linguistici (anagrammi, zeppe, cambi, palindromi ecc.) che, obbligandoci a smontare e rimontare le parole, aiutano a non prendere fischi per fiaschi, pecche per picche, torte per trote e così via.

Perché si impara di più, divertendosi.

venerdì 5 maggio 2017

Valenziale e traduzione automatica (notizie dalla Cina)

Chi abbia utilizzato il programma Google Translate nelle ultime settimane si sarà accorto del salto di qualità nella resa da e verso l'italiano: non tanto nella precisione delle parole e delle espressioni idiomatiche, quanto nell'andamento più naturale che hanno le frasi nella lingua di arrivo. Una differenza tanto più evidente quanto più lunga e frammentata è la struttura della frase di partenza (quando si ha cioè a che fare con una frase complessa contenente incisi o subordinate incassate, per cui gli elementi da accordare sono distanti tra loro, o con un ordine delle parole non standard).



Il segreto del balzo in avanti è dato dai progressi dell'intelligenza artificiale, che sfrutta oggi le cosiddette "reti neurali", un sistema di trattamento dell'informazione che si ispira al funzionamento del nostro cervello per "capire" e trattare la sintassi di una lingua.
Fino a qualche mese fa, il programma di Google traduceva come un adulto che si limiti a decifrare il testo di partenza parola per parola (con l'aiuto di un dizionario) facendo tutt'al più attenzione alle polirematiche, cioè alle combinazioni più o meno fisse di parole che vanno considerate come unità (es. ferro da stirorimboccarsi le maniche ecc.). Sulla base di calcoli statistici, il programma estraeva poi dal web la combinazione più frequente nella lingua di arrivo per quelle parole, copiando di fatto la struttura di una frase corretta.
Ora, invece, Google ha imparato a comportarsi come un bambino che deve capire quello che gli stiamo dicendo: si affida sì alla comprensione sequenziale (parola dopo parola) ma ricordando le parole iniziali in modo da costruire via via "reti strutturali" (per riprendere la formula di Castelfranchi e Parisi) che permettono di mettere in relazione gerarchica le singole unità e accedere così alla rappresentazione semantica della frase.
Come un bambino, insomma, il programma integra la memoria a breve e lungo termine, controllando il significato di ogni singola parola e ricordando la sequenza in cui sono combinate: in questo modo può fare ipotesi sul significato della frase via via che si viene costruendo, e aggiustare man mano il tiro.
Come a un bambino, a Google Translate manca la conoscenza del mondo spesso necessaria per fare le giuste inferenze (es. collegare una causa al suo effetto, o ricostruire un implicito), cogliere giochi di parole o reti metaforiche; come un bambino, tuttavia, impara rapidamente se viene corretto in caso di errore (Google Translate conta sulla collaborazione degli utenti per il miglioramento del servizio).

Dalla descrizione dell'algoritmo che permette al traduttore automatico di segmentare la frase e confrontare i tronconi di frase sia a livello paradigmatico sia a livello sintagmatico (data da Macduff Hugues, capo degli ingegneri di Google Translate), non è chiaro il ruolo che abbia o possa avere in questo cotesto il concetto sintattico di "dipendenza" o "valenza", ma è evidente che i "nodi" delle reti neurali segnalano rapporti di dipendenza reciproca tra parole.

Probabilmente il traduttore migliorerebbe ancora di più le sue prestazioni se utilizzasse il concetto di dipendenza nell'accezione tesnièriana. Lo dimostra il lavoro che da anni viene portato avanti dal linguista Liu Haitao dell'Università di Zhejiang: una Treebank (cioè un corpus annotato rispetto alle parti del discorso e alle relazioni sintattiche principali) che utilizza la grammatica valenziale per implementare l'analisi sintattica nei programmi di traduzione automatica dall'inglese al cinese. In questa lingua, infatti, l'analisi binaria della frase (basata sulla scomposizione in un sintagma nominale e uno verbale, rispettivamente soggetto e predicato) solitamente utilizzata nelle Treebank e nei Parser elaborati in paesi angolofoni, si applica in modo non soddisfacente (in cinese la struttura della frase prevede che in prima posizione si metta il topic, ovvero l'elemento di cui si parla, che può essere rappresentato da elementi sintattici diversi dal soggetto)
Gli articoli in inglese del professor Liu (come questo o quest'altro) ci danno l'idea della complessità e delle potenzialità che la grammatica valenziale racchiude per il trattamento automatico a livello contrastivo della struttura sintattica di lingue tipologicamente molto diverse tra di loro (come il cinese rispetto all'inglese o all'italiano), e nella corretta interpretazione di frasi in cui i rapporti di dipendenza si stabiliscano anche (o soprattutto) a distanza.

Insomma: anche nella linguistica informatica, e all'altro capo del mondo, la valenza crea legami, apre strade alla comprensione e alla comprensibilità reciproca. Perché oggi la lingua veicolare internazionale è l'inglese. Domani potrebbe essere la traduzione automatica.