sabato 9 settembre 2017

Capire la grammatica (recensione a Colombo-Graffi)

Fresco di stampa (appena uscito per i tipi di Carocci, nella collana "Studi superiori"), ho ricevuto il volume Capire la grammatica. Il contributo della linguistica a firma di Adriano Colombo, uno dei più valenti studiosi ed esperti di educazione linguistica, e Giorgio Graffi, una delle menti più raffinate prestate agli studi di sintassi e storia della linguistica.




Un volume prezioso per studenti e insegnanti che vogliano conoscere i percorsi storici delle due discipline (da un lato la grammatica tradizionale, con i suoi duemila anni di storia, dall'altro la linguistica moderna, appena centenaria), i tentativi di intrecciare i rispettivi ambiti di riflessione negli ultimi cinquant'anni, e le prospettive che un simile intreccio può disegnare nell'insegnamento scolastico dell'italiano.

Se molti concetti della grammatica tradizionale rimangono validi e costituiscono di fatto il terreno comune su cui si è innestato ed è cresciuto il nostro sapere linguistico, il modo in cui essi risultano trattati nei libri scolastici (semplificato, travisato, irrigidito) ha finito per impoverire l'insegnamento della lingua, troppo spesso basato su una "grammatichetta" che "assorbe molto tempo e impegno nella scuola dell'obbligo e lascia per lo più tracce scarse e confuse, non avendo basi razionali" (p. 13).

L'invito, chiarissimo, è quello a portare nella riflessione grammaticale un metodo critico e rigoroso, un atteggiamento scientifico (e non già dogmatico) sia nella descrizione della lingua e sia nel modo di "fare grammatica" in classe: non in modo meramente trasmissivo, ma "per ipotesi e verifiche, tentativi ed errori".
Evidentemente qui per "grammatica" non si intende il rispetto di elementari regole di ortografia e morfosintassi, ma una visione complessa e articolata delle strutture della lingua: testo, periodo, frase, categorie grammaticali. Una riflessione che, per il suo alto grado di astrazione, non può essere limitata ai livelli inferiori di istruzione, non deve essere sproporzionata all'età degli alunni, non può ridursi alla memorizzazione di etichette né limitarsi a un modello di lingua solo scritta e stereotipata.
Quello che si propone è un uso intelligente, vivo e graduato del sapere grammaticale, che deve accettare la sfida di rinnovarsi sia per acquistare un carattere più "essenziale", sia per ancorarsi a solidi modelli di analisi, che consentano di costruire generalizzazioni esplicite e verificabili a partire da dati linguistici autentici.

Tra i concetti della linguistica moderna che vengono proposti per superare le aporie della grammatica scolastica (cap. 3) compare quello di "valenza verbale", insieme con la distinzione tra "nucleo" e periferia della frase, ovvero tra costituenti "argomentali" e "circostanziali" della frase (come anche del periodo). Ma anche il concetto di "sintagma" o "gruppo di parole", la distinzione tra "frase" ed "enunciato" e così via.
Una delle parti più nuove e istruttive del volume è il capitolo 4, dedicato alle parti del discorso che -  riprendendo e sintetizzando i contributi monografici dedicati all'argomento nella serie delle "Bussole" Carocci diretta dallo stesso Graffi (usciti a partire dal 2011) - con pochi ma sapienti ritocchi all'inventario tradizionale (compare la categoria dei determinanti, necessaria per capire l'analogo funzionamento di elementi come articoli da una parte, aggettivi dimostrativi e indefiniti dall'altra) e una critica serrata alle definizioni circolanti, rifonda su basi scientifiche uno dei pilastri del sapere grammaticale, indispensabile anche per affrontare la riflessione sul lessico.

Il capitolo 5, infine, "Qualche idea per l'insegnamento della grammatica", rifonde le riflessioni decennali di Colombo, anima del GISCEL bolognese, sul curricolo verticale tra continuità e discontinuità (su questo tema rimando a due articoli online del 2012 e 2013).
Qui la riflessione grammaticale viene fatta dialogare con altre riflessioni sulla lingua (quella lessicale e quella variazionale) e scandita in tappe ragionevoli, come del resto tentano di suggerire le troppo poco lette Indicazioni nazionali (documento che ha anche il merito di promuovere, per l'avvio della riflessione grammaticale nelle ultime classi della scuola primaria, un approccio globale e concreto che parta dalla frase semplice per arrivare alle singole unità). 
Ma da questo punto di vista - come ironicamente sottolinea l'autore - le pratiche scolastiche sembrano solidamente ancorate a un principio enunciato non nel documento del 2012 ma nei primi programmi per la scuola dell'obbligo, che risalgono al 1867 e fanno incominciare l'insegnamento grammaticale nella classe seconda elementare, quando il/la discente non solo non ha ancora automatizzato la scrittura manuale e la lettura (che dovrebbero essere le priorità assolute dell'insegnamento primario), ma neppure ha sviluppato una capacità di pensiero astratto adeguata alla riflessione grammaticale. Una consapevolezza, questa, che troviamo mezzo secolo dopo in Giovanni Gentile, il quale nel 1913 - prima di far propria la condanna crociana dello studio alto della grammatica - scriveva:
"la grammatica deve essere insegnata, ma non per fare imparare la lingua, anzi quando la lingua è imparata: e perciò non ai bambini, sibbene ai giovani, per dare la coscienza riflessa della lingua" 
Del resto, se i programmi del 1867 anticipavano incautamente l'avvio dello studio riflesso, raccomandavano di esporre "con semplicità solo le più fondamentali regole", senza "entrare in più minute e sottili suddivisioni e in definizioni astratte".
Raccomandazione tuttora disdegnata: sappiamo tutti che lo studio della grammatica continua a essere avviato prestissimo, percorso con grande rapidità e dosi massicce di nomenclatura, con una presentazione ripetitiva dei medesimi stessi argomenti a tutti i livelli di scuola e un'analoga scansione dal piccolo al grande.
La comodità del rifugio nella tradizione di fatto blocca la disponibilità di gran parte del "corpo docente" a rivedere il proprio sapere e le proprie pratiche, col risultato che anche il "corpo studente" finisce per rifugiarsi in quel poco che ha memorizzato e male assimilato, senza preoccuparsi di portare la riflessione grammaticale nella pratica dei testi (letti e scritti).

Nel 1867, in un'Italia prevalentemente dialettofona e analfabeta, bisognava fare l'italiano insieme agli italiani. Oggi, a 150 anni da allora, in uno Stato italofono e multiculturale, resta da fare un curricolo sensato e (ri)formare le/gli insegnanti perché l'italiano non regredisca: nella scuola e nella società.

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