venerdì 23 marzo 2018

Sapere 100 per insegnare 1 (in risposta a Settis)

Sulla rivista LA VITA SCOLASTICA, una risposta all'articolo di Salvatore Settis (Scuola, la catena del sapere spezzata), scritta a sei mani (con Chiara Panzieri e Jessy Simonini).
Si può insegnare, imparare a insegnare e insegnare a insegnare la lingua e la letteratura italiana sapendo "cosa" e "come"? Senza separare "metodo" e "contenuti"
Si può e si deve!  


 

Prima di leggerlo, potete scorrere questa premessa che contestualizza i termini del dibattito.  
 
 
L’inizio di quest’anno, come di quello scorso, è stato segnato da un appello che (sia pure con meno clamore meno rispetto alla «Lettera dei Seicento») ha toccato il mondo della scuola.
Il nuovo appello sulla scuola pubblica (che al momento ha superato le 10.000 firme) ha come sottotitolo (claim) «contro la didattica per competenze» (accusate di essere prive di scientificità) e tra i contenuti «7 temi per un’idea di Scuola» portati all’attenzione dell’opinione pubblica.

Ho letto l'appello con attenzione.
In primo luogo perché viene dal mondo della scuola (7 insegnanti di scuola superiore sono i primi firmatari) ed esprime un evidente malessere di fronte ai cambiamenti che stanno investendo la professionalità docente e il mondo dell’educazione.
In secondo luogo perché contiene alcune critiche e proposte (finalmente!) ragionevoli, in mezzo ad attacchi pregiudiziali nei confronti di una riforma che evidentemente ha fallito (la "Buona Scuola", pur riversando sulle scuole attenzioni e finanziamenti invocati da tempo, ha finito per creare un conflitto insanabile tra insegnanti e governo di centro-sinistra) ma che ha avuto anche alcuni effetti positivi: il ritorno della formazione in servizio, per esempio, o l’attenzione ai bisogni dell’apprendente (non solo sottoforma di “competenze” da sviluppare, ma anche di “curricolo verticale” da attuare). Insomma: ha avuto il merito di scrollare (se non scuotere) un “corpo docente” spesso inerte (specie ai livelli più alti dell’insegnamento) e refrattario ai cambiamenti.

Chiaro che non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle derive negative del processo: la corsa ai corsi di aggiornamento (che spesso si limitano a fornire ricette comportamentiste e kit di formule psicopedagogiche), le valutazioni incaute e le certificazioni facili, l’entusiasmo imprudente per le nuove tecnologie, l’aggravio burocratico, certe proposte discutibili di distribuzione dei contenuti lungo il percorso scolastico, l’alternanza scuola-lavoro come nuova forma di sfruttamento.
 
Sono in disaccordo anche col modello economicista che (già dalla "scuola delle tre i") sostiene molte scelte governative in tema educativo: la scuola delle skills e del “sapere fare” rischia di essere una ricetta semplice per un problema complesso (la crisi del mercato del lavoro).
Ma siamo sicuri di voler tornare, per tutta risposta, alla scuola elitaria che (in modo più o meno esplicito) rimpiangono in molti? 

Il testo dell'appello ha poi un difetto fastidioso: adotta la strategia argomentativa dell’amalgama – fare di tutt’erba un fascio – come leva identitaria.

Anche l'articolo di Settis confonde i piani del dibattito: pedagogia e didattica sono trattate come sinonimi; la didattica generale (la metodica, come si chiamava nell’Ottocento) è confusa con le didattiche disciplinari; l'apprendimento "percettivo-motorio" tipico della conoscenza che si apprende per esperienza (a bottega) è messo sullo stesso piano di quello "simbolico-ricostruttivo" tipicamente scolastico, basato sull'interpretazione dei testi (riprendo la distinzione da un volume di Francesco Antinucci intitolato La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere, Laterza 2001).  

La catena del sapere si è spezzata o la scuola si è rotta, appunto?

La polarizzazione dell'opposizione tra una "scuola dei contenuti" e una "scuola delle competenze" rischia di configurarsi come lo scontro tra chi si vanta di conoscere solo la propria disciplina (magari come gli è stata insegnata svariati decenni prima), e chi, trascurando l'importanza di conoscerla a fondo, subisce il fascino di percorsi psicopedagogici à la page che prescindono dai contenuti.  

Per fortuna, nel mondo della scuola ci sono anche gli altri: le e gli insegnanti (aspiranti, in attesa, in servizio, a riposo) che cercano di fare del proprio meglio, con fatica e perseveranza, per trasmettere con metodo, in modo critico e aggiornato, i contenuti della propria disciplina. Quelli per cui non ha senso separare metodi e contenuto, allo stesso modo per cui in una poesia non possiamo separare (se non in modo artificioso) forma e contenuto: anche la forma (il metodo, nel nostro caso) è contenuto! 
 
Il nostro articolo parla degli insegnanti di lettere. Figure essenziali per gli studenti e per la comunità nel suo complesso: non solo perché la nostra comunità fa ancora della cultura classicista (e della sua presunta sopravvivenza a rischio) il perno del dibattito pubblico, ma perché l’insegnamento della lingua è al cuore dell’educazione democratica e della trasmissione di tutti i saperi, umanistici e scientifici.

Che cosa deve sapere un insegnante di lettere per poter insegnare? Bastano la passione e le conoscenze (di storia, letteratura, storia della lingua, filosofia, geografia) per attivare quello che Settis definisce "il contatto", necessario per trasmettere i contenuti disciplinari? 
Io credo di no. E nell'articolo cerco di argomentare questa opinione ragionando insieme a uno studente eccellente che vuole diventare insegnante e a una mia compagna di studi che ora insegna con passione e ostinazione in una scuola media torinese.

Il titolo, in forma di slogan, è ripreso dalla frase di un'insegnante di matematica (Laura Serotti) conosciuta e ricordata da Giorgio Graffi durante la sua lezione bolognese: Per insegnare uno bisogna sapere cento.
Una donna arrivata alla laurea e all'insegnamento (nell'università e in un liceo) negli anni Sessanta avendo alle spalle una famiglia modesta, l'avviamento professionale e l'esperienza in fabbrica. Una storia che ci piace ricordare.   

Anche nella mia esperienza di insegnante ha contato moltissimo lo studio, che mi ha dato e mi dà sicurezza; in parte ha agito il modello (per definizione inarrivabile) dei maestri e delle maestre che ho incontrato e ammirato; ma quello che ha fatto la differenza è stato il riscontro di colleghe che si sono offerte di sedere sui banchi insieme alle studenti per ascoltarmi e suggerirmi strategie adatte a mantenere alta l'attenzione e rendere più efficace la trasmissione dei contenuti. Il consiglio che mi sono sentita spesso ripetere, guarda caso, è: alleggerisci, sciogli, riduci la densità dei contenuti. Non è facile, ma è necessario.

 

Per chi volesse approfondire, rimando all'articolo di  Antonio Brusa (Competenze e mal di scuola su "Historia ludens"), che affronta il tema dal punto di vista della didattica della storia, e a quello di Federico Batini e Cristiano Corsini (I contenuti e il contatto, su "La Ricerca"): il punto di vista degli esperti di "didattica del pilotaggio" (come li definirebbe Settis), ricco di dati e spirito polemico (forse un tantino autoreferenziale).

Sulla rivista del CIDI (Insegnareonline), è disponibile uno speciale "Opinioni a confronto" dedicato al tema "Contenuti vs competenze"
 
Buone e faticose (ma istruttive) letture!    


P.S.: Giovedì 15 e venerdì 16 marzo si è svolto a Milano il seminario "Didattica e saperi disciplinari" organizzato dalla SIRD (Società italiana di ricerca didattica). Un esempio virtuoso di come si possa ragionare insieme, tra "disciplinaristi" e "pedagogisti", intorno a un tavolo, sui temi della didattica e metodologia nella ricerca educativa.

Il 6-7 aprile si terrà a Roma un convegno promosso dall'ADI (Associazione degli Italianisti) Sezione Didattica, dedicato a tipi di sperimentazione sulla letteratura del Novecento.
Tante e ricche anche le attività dell'ADI scuola (Associazione Docenti e Dirigenti scolastici Italiani) e, sul fronte linguistico, dell'ASLI scuola (Associazione per la Storia della Lingua Italiana).

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