sabato 5 maggio 2018

Senza il soggetto (imperativi e dintorni)

Negli ultimi anni mi è capitato, a più riprese, di sfiorare una questione trascurata dalle grammatiche: l'assenza di soggetto nelle frasi imperative.

Dormi!
Non mangiate le margherite!
Regalati una vacanza!

Il modo imperativo del verbo, utilizzato per dare ordini o imporre divieti, può entrare in una frase facendo a meno del soggetto, a prescindere dalla valenza del verbo in questione. Anche verbi non impersonali (come dormire, mangiareregalare), che normalmente implicano la presenza di un soggetto (anche se sottinteso), possono formare frasi che implicano l'assenza - sul piano sintattico - del soggetto.
(Ho fatto esempi con verbi d'azione perché solo le azioni sono suscettibili di comandi che possono essere eseguiti dall'interlocutore: non possiamo ordinare a qualcuno di (non) provare dei sentimenti... pretendendo di essere obbediti).

Il verbo leggere non sopporta l’imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo amare, il verbo sognare... Naturalmente si può sempre provare. Dai, forza: "Amami!", "Sogna!", "Leggi!" [...]. Risultato? Niente. (Gianni Rodari)


Chiaramente, nella nostra lingua, la forma verbale porta comunque nella sua desinenza la marca della persona (dorm-i è alla seconda singolare, dunque si rivolge a un tu; mangi-ate è alla seconda plurale e implica un voi). Anche in una frase imperativa, dunque, è chiaro il riferimento del verbo.
Possiamo dire anzi che le frasi imperative sono (insieme alle interrogative) quelle che presentano l'orientamento più deciso verso l'interlocutore, del quale vogliono influenzare il comportamento. Si tratta dunque di frasi che hanno non semplicemente una funzione "ideativa", ma una funzione "interpersonale" - come direbbe Halliday. Servono a regolare i rapporti tra parlante e interlocutore, e più in particolare a "fare cose con le parole" (Austin).

In una frase imperativa, inoltre, spesso compare nella posizione tipica del soggetto un appellativo (di solito il nome proprio della persona cui ci si rivolge) seguito da una pausa: è quello che in latino chiameremmo "vocativo" e che, guardacaso, aveva una forma distinta sia da quella del soggetto (al caso nominativo) sia da quella dell'oggetto (all'accusativo). In italiano la forma è la stessa in tutti e tre i casi, ma di solito interviene una virgola a separare il vocativo dal verbo.

Mario, stai fermo!
Esci, tu!
Ragazzi, entrate in classe!

In questo caso, il parlante dà all'interlocutore (una persona, o un gruppo di individui), l'ordine di assumere nella frase il ruolo che il verbo normalmente (quando è coniugato in una forma diversa dall'imperativo) assegna al soggetto: il ruolo cioè di punto di vista privilegiato, a partire dal quale possiamo interpretare il significato della frase.

Mi seguite, o vi siete persi?
Capisco che è una faccenda tecnica, ma - se ci riflettiamo bene - ha a che vedere con qualcosa che ci riguarda da vicino: i limiti della nostra libertà personale, il modo (anche verbale) con cui imponiamo all'altro la nostra volontà e le nostre decisioni, facendolo scomparire dalla "scena verbale" per poi richiamarlo col ruolo di rimpiazzo destituito di responsabilità.

Un fantoccio senza valenza, una marionetta coi fili: questo è il vocativo.


5 commenti:

  1. L’imperativo con verbi di sentimenti

    “non possiamo ordinare a qualcuno di (non) provare dei sentimenti”. Scrive giustamente Cristiana.

    Tutte le volte che ascolto il Don Giovanni di Mozart rimango spiazzata dall’imperativo “Pentiti!” che per ben tre volte Da Ponte mette in bocca alla statua del Commendatore, (atto II, scena XVII)

    -Pèntiti, cangia vita: è l'ultimo momento!
    -No, no, ch'io non mi pento: vanne lontan da me!
    -Pèntiti scellerato!
    -No, vecchio infatuato!
    -Pèntiti.
    -No.
    -Sì.
    -No.

    Ma a Don Giovanni sarebbe bastato rispondere con un sì per essere salvo? (Senza volersi inoltrare in considerazioni sul pentitismo in ambito giuridico)

    Ci sono altri esempi di usi imperativi dei verbi di sentimenti?

    Carmela Camodeca

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  2. Grazie Carmela del commento, che mi consente di approfondire un aspetto che ho lasciato in ombra: il cosiddetto "imperativo tragico" dell'italiano dei secoli passati diffuso nella poesia, nel melodramma e nella tragedia), usato anche con verbi di sentimento.
    Ecco un esempio di Puccini: «Son vinta. Mi perdona!». Il pronome atono obliquo, come accade tipicamente in questa costruzione, precede il verbo: "Mi perdona" anziché "Perdonami".
    Anch'io piango sempre quando ascolto il don Giovanni. Non so se per colpa degli imperativi.
    Il parlante può dare ordini che vertono su sentimenti, ma non può aspettarsi che questi vengano obbediti. Il perdono e il pentimento, sentimenti speculari, non si danno a comando, e non possono essere immediati. Anche questa, forse, è l'origine della tragedia.

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  3. Ma di cosa state parlando??? Cosa c'entra mischiare la grammatica con i sofismi ? La grammatica di una frase in una qualunque lingua NON è necessariamente legata alla pura logica. Per esempio i casi della lingua latina possono inalcune istanze essere applicati meccanicamente anche a sostantivi che di per se producono risultat che non hanno un senso logico quindi insensati. Mi scuso se non ho qui subito un esempio pronto da proporre.

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  4. Qui si parla di grammatica filosofica. Nessun dubbio sul fatto che che la sintassi di una lingua rifletta solo in parte le strutture logiche e solo in misura residuale i realia maggiori esempi e dettagli si possono trovare nel mio libro in uscita per la casa editrice il Mulino: La sintassi della frase semplice.

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